La discendenza dei Ruffo di Calabria,

Note riassuntive sulla famiglia Ruffo di Calabria

Scritte da Giovanni Ruffo
Per il Sistema Bibliotecario Territoriale Jonico

Premessa

Dare notizie documentate sulla genealogia della famiglia Ruffo, agli albori del secondo millennio definita Magna Domus, per me non fu impresa né semplice né facile, anche se molto mi hanno aiutato gli scritti di Gioacchino e Vincenzo Ruffo della Floresta i quali, documentatissimi, scrissero nel corso dei primi due decenni del 1900.
Quando ho aderito all'invito rivoltomi dal Direttore del Sistema Bibliotecario Territoriale Jonico, Dottor Piero Leone, di dargli quanto avevo scritto sulla genealogia della famiglia Ruffo, mi sono subito accorto che le 337 pagine, che compongono il volume ancora inedito, erano troppe, difficilmente consultabili e di scarso interesse per l'abituale "navigatore" di Internet. Ho dunque pensato di riassumere in poche pagine le notizie genealogiche dividendole, per comodità di consultazione, in due distinti capitoli: il primo in cui riferisco notizie sull'origine di questo Casato, ricavate da antichi testi e, dunque, povere di documenti per così dire "diretti", ma corredate di riferimenti bibliografici, ed il secondo nel quale riferisco notizie ampiamente documentate.
Il primo capitolo inizia con le notizie date da Tamusio Tinga, il quale scrisse che questa famiglia ebbe principio da Ascanio Silvio, figlio di Enea Re dei Latini e precisamente da Rufus, suo terzogenito; siamo nell'anno 1191 a. C. n. (ante Christum natum: prima della nascita di Cristo). Il secondo capitolo ha radici nell'anno 1146 dell'Era volgare e prende spunto da un diploma del primo Re normanno, Ruggero II, il quale investe dei feudi di Cambuca e Minzillicar, siti nel tenimento di Sciacca, Gervasio Ruffo, cadetto dei Ruffo di Calabria. Un suo pronipote dello stesso nome si trova elencato tra i valletti imperiali, in un documento del 1225.

CAPITOLO I

La famiglia RUFFO, secondo le fonti più antiche, trae la propria origine dalla

Familia Rufa di Roma, discendente da quella CORNELIA. Molti storiografi e genealogisti, vissuti nei secoli scorsi, hanno scritto della discendenza di questa famiglia. Ne scrive Giovanni Ritonio nella sua opera "Texera omnium familiarum nobilium Italiae", edita a Valenza nel 1484, nella quale asserisce che al tempo dell'Imperatrice Jole - figlia di Giovanni Fulcone Ruffo (nelle cronache dell'epoca si trova un altro Giovanni Fulcone padre di un'altra Imperatrice, che ebbe nome Berenice) e moglie dell'imperatore Andronico Giovanni Comneno - " haec famiglia quinquaginta principes abuit et cum eis magnam multitudinem discendentium ad numerum termilium". A tale proposito credo utile annotare che al tempo di quell'Imperatore i Ruffo erano già da secoli presenti e potenti in Calabria, come sarà documentato nel II capitolo.

Leone Moarsicano (1046-1117), Cardinale e Vescovo di Ostia - meglio conosciuto col nome di Leone Ostiense - che scrisse la sua "Cronaca Cassinese" tra il 1086 ed il 1105, nel II tomo afferma che Filippo ed Enrico Ruffo combatterono a favore dei Normanni anche contro i Greci, e che nel 1091(1071? N.d.e.) ricevettero nei loro feudi come alleato Roberto Duca di Puglia e lo aiutarono a conquistare Terra d'Otranto e la Basilicata. Questi due fratelli si trovano indicati anche col predicato di Catanzaro.

Ne scrisse anche Frate Simone da Lentini, vissuto al tempo del regno del Primo Angiò, ossia nella seconda metà del 1200. Scrisse Frate Simone: "Rufa, nobilissima et vetustissima familia tempore romanae republicae magnopere vixit et usque ad meum tempus potentissima vixvitt (vivit?) ".

Il conte Bernardo Candida Gonzaga, da tutti considerato uno dei maggiori genealogisti, nel volume quinto della sua opera "Memoria delle famiglie nobili delle province meridionali d'Italia", così scrive della famiglia Ruffo:

"Le opinioni circa l'origine di questa Casa, ricordata dagli scrittori col titolo di Grande Casa, sono infondate o contrarie ai documenti.

Il Contarino la disse venuta da Francia con Carlo I d'Angiò, mentre trovasi Pietro Ruffo essere potente signore in Calabria prima della venuta dei Normanni: fu egli poi Conte di Catanzaro e s'intitolava <Dei gratia Comes Catanzarii>. Ed in quell'epoca la casa Ruffo si vede aver raggiunto l'apice della sua potenza, tanto che verso l'anno 1014 prestò il suo valevole aiuto all'Imperatore greco nella riconquista che questi fece delle Calabrie e delle Puglie contro i Saraceni, che se ne erano impossessati. Il Gamurrini vuole che traesse la sua origine da Assisi e che passata in Roma si fosse poi diramata in varie città d'Italia. Altri la credono Longobarda. La maggior parte degli autori però la dice originaria dalla gente Rufa di Roma, discesa dalla Cornelia".

Per dovere di completezza citerò soltanto i nomi di alcuni altri storici e genealogisti che scrissero sullo stesso argomento: Geronimo Enningens di Luneburgo nel suo "Teatro genealogico", a Tamusio Tinga ho già accennato, Valerio Anziate nel "De proheminentia Romanae Reipublicae", Ubbone Emmio genealogista olandese, Ferrante Della Marra nel "Discorsi delle famiglie nobili......", Ugone Falcando nella "Historia de rebus gestis in Siciliae Regno", Imhoff in "Genealogia viginti Illustrium in Italia Familiarum .......", Filadelfo Mugnos in "Teatro genealogico delle famiglie illustri".

Per ultimo cito l'autore, tra quelli più vicino al nostro tempo, che da Anonimo Scrisse "Istoria della casa dei Ruffo", edita a Napoli nel 1873 presso la "Tipografia nel Reale albergo dei poveri". Tutti, però, conoscono il nome di questo anonimo autore: Francesco Proto duca di Maddalone. Di lui mi sembra utile riportare non le notizie storico genealogiche - che fanno discendere il casato dei Ruffo dal patriziato romano - ma la sua introduzione alla lettura del libro, nella quale chiarisce il concetto di "nobiltà perfetta", ossia il significato che in genealogia si attribuisce alla definizione "Famiglia di antica nobiltà". Stimo che aiuterà il lettore a meglio comprendere il "linguaggio genealogico" in uso nel passato, se io dovessi cadere nell'errore di farne ricorso nelle pagine seguenti. Il Proto così introduce il suo libro: "Come ognun sa, famiglia è un ordine di discendenza, il quale, traendo principio da una persona, ed ampliandosi nei figlioli e dai figlioli ai nepoti, e così, per conseguente, dai nepoti ai pronepoti, costituisce una gente, siccome dicevano gli antichi o, per dire più chiaramente, un parentado, che dalla chiarezza delle cose fatte, o dalle ricchezze lungamente possedute, o dalle terre per alcuna età signoreggiate, o dalla antichità dei maggiori, è detto nobile. E questa voce nobile, come vuolsi ben ricordare, deriva dalla voce NOSCO, quasi dir voglia noscibile, cioè conosciuto o da conoscersi. Laonde i Latini usarono prender questa voce, avendo riguardo alla sua primiera origine, così per quello, che noi volgarmente diciamo nobile per conto del lignaggio, come per ogni qualunque cosa, la quale fosse molto conosciuta e famosa, avvegnacché rea e cattiva. Due adunque sono le cose principali, se ben si pon mente, le quali hanno ad intervenire per far perfetta una nobiltà: e queste sono l'antichità e lo splendore....."

Ma io sto scrivendo per il "navigatore di Internet", solitamente di età giovanile e nutrito di cultura moderna, considerazione che mi suggerisce di dare una definizione attuale del concetto di "nobiltà perfetta" e di "antica famiglia nobile" per ben mostrare, contrapponendoli, l'antico ed il nuovo significato.

Claudio Donati dell'Università di Milano scrive: "In senso più specifico ed in connessione alla storia europea dall'antichità all'età moderna, col termine di nobiltà s'intende una particolare condizione giuridica e sociale, legata al possesso spesso ereditario di onori e privilegi esclusivi, e per estensione l'insieme degli individui, delle famiglie e dei "corpi" dotati di tale status privilegiato"

Per meglio far comprendere la prassi che, nei tempi che furono, regolava la vita e la sopravvivenza di una famiglia feudale, sopravvivenza legata al tramandarsi "di onori e privilegi esclusivi" da una generazione all'altra, dirò che in tali famiglie vigevano delle "regole" particolari.

In una famiglia feudale erano considerati "primogeniti" i primi due nati maschi. Se dal matrimonio del fratello più anziano nascevano soltanto figlie femmine, la prima di queste nate avrebbe sposato il cugino, ossia il figlio più anziano del fratello di suo padre. Si sarebbe così evitata l'estinzione della linea maschile del Casato.  

L'eredità feudale e quella allodiale (ossia la proprietà libera da vincoli feudali) erano trasmesse al discendente attraverso l'Istituto del "fedecommesso" associato all'altro del maggiorascato ossia della primogenitura (al secondo figlio spettava un "assegno di militanza" che gli assicurava una rendita vitalizia). Questi, cominciando dalla seconda metà del cinquecento, erano gli istituti giuridici di trasmissione ereditaria (anche in perpetuum) dei patrimoni nobiliari, che consentivano la trasmissione dei beni familiari indivisi al primogenito maschio. Come conseguenza derivava l'inferiorità sociale, giuridica ed economica dei figli cadetti (i più giovani) e di tutte le figlie femmine. I cadetti avevano diverse possibilità: la carriera militare, quella in ordini cavallereschi, l'ingresso negli ordini religiosi o nelle fila del clero secolare.

Anche le figlie femmine, alle quali eventualmente non era stata destinata una dote matrimoniale, molto onerosa per la famiglia, avevano una "dote monacale", meno onerosa. Attraverso tale dote le fanciulle entravano in Ordini religiosi di prestigio e quasi sempre raggiungevano le più alte dignità dell'Ordine (e questo, come è intuibile, aumentava "l'influenza della Famiglia").

Fu inevitabile che si creasse tra nobiltà feudale e mondo ecclesiastico una particolare intesa dalla quale nacque l'istituto giuridico definito "giuspatronato laicale".

Di questo Istituto così scrive il Donati: ".... In tal modo la fondazione di un giuspatronato rappresentava per una famiglia nobile un vero e proprio investimento economico di lungo periodo, perché consentiva il mantenimento dignitoso di un maschio della famiglia per più generazioni; si potrebbe dire, in conclusione, che un beneficio di giuspatronato laicale era una specie di fedecommesso a favore dei figli cadetti". Mi resta soltanto da precisare che i "patrimoni nobiliari" erano costituiti essenzialmente dalla proprietà terriera. L'eventuale lucro derivante da attività commerciali, industriali o finanziarie serviva ad accrescere il patrimonio allodiale (ma anche, ove possibile e conveniente, quello feudale) comprando nuove terre e, in misura minore, altri beni immobili.

Un breve inciso per accennare alle leggi eversive della feudalità.

Nel regno di Napoli l'Istituto feudale fu abolito dalla legge eversiva del due agosto 1806, che raggiunse la pratica applicazione intorno al 1810/12, durante il governo di Gioacchino Murat.Negli altri Stati della Penisola ciò era avvenuto prima. Nonostante i "guasti" causati nel regno di Napoli, e segnatamente in Calabria, dalla dominazione francese che ebbe la durata di dieci anni - danni legati in gran parte all'ignoranza che il governo centrale aveva delle condizioni economiche e di vita della Regione e delle popolazioni e di conseguenza, alla mancata comprensione dei travagli, anche politici, presenti in quel territorio - non si può negare che l'abolizione dell'Istituto feudale aveva creato le basi sulle quali far crescere l'economia e migliorare le condizioni di vita delle masse popolari. Se ciò non si è pienamente verificato, non fu tutta colpa del governo centrale. I calabresi che formavano il ceto dei cosiddetti galantuomini di estrazione borghese - ma soprattutto "rurale" - approfittarono di ogni occasione per arricchirsi, con la conseguenza, spesso verificatesi, di compromettere le possibilità di crescita economica. Chiuso l'inciso, tenterò di sintetizzare in un'espressione moderna, più aderente al nostro tempo, il concetto che una volta si aveva della "nobiltà", tanto più che ormai da tempo non riveste personalità giuridica.

Oggi il concetto di nobiltà, ove proprio si voglia fare ricorso per definire il comportamento di un determinato cittadino, non può che essere legato alle personali qualità dell'individuo, piuttosto che ai suoi natali.

Credo opportuno ora riportare qualche breve notizia sul nome RUFFO.

Il nome ebbe origine dall'aggettivo latino rufus, rufa, rufum che si traduce in italiano nell'aggettivo rosso, ossia rosso fulvo o rosso volpe. Il cognome Ruffo, dunque, fu dapprima un soprannome e come tale un aggettivo. I cognomi romani, infatti, presero origine da soprannomi dati ad individui sia per le loro qualità caratteristiche, o per virtù speciali, o per qualche azione degna di nota, o per servizi resi alla Repubblica, o ancora per difetti fisici etc.. Con il tempo, l'aggettivo originario divenne cognome e, come tale, fu tramandato ai discendenti. Il primo Ruffo, con molta verosimiglianza, ebbe capigliatura rossiccia o, se si preferisce, fulva.

Sull'origine dei cognomi si potrebbe disquisire a lungo e sarebbe anche d'interesse genealogico ed un poco anche storico; infatti abbiamo visto che per questa disciplina la nobiltà perfetta è strettamente legata all'antichità del Casato, oltre che al suo splendore. 

Ai Ruffo furono attribuite, oltre a quelle dal patriziato romano, origini normanne, longobarde ed addirittura francesi. Fu un errore nel quale caddero anche valenti storici nostri contemporanei e ciò si spiega facilmente: gli storici, che io sappia, non hanno personalmente condotto indagini genealogiche, - le quali richiedono talento, mentalità ed "educazione" particolari - e nei loro scritti fecero sempre riferimento a quanto riferito da terzi. Occorrerebbe, invece, che gli storici tenessero in giusto conto l'importanza della genealogia, che dopo la geografia, la cronologia e la diplomatica è della storia la disciplina ausiliare più utile.

Stimo che abbia scritto già abbastanza delle varie teorie sull'origine di questo Casato. Si potrebbe scrivere molto di più, e non sarebbe privo d'interesse - nel dattiloscritto inedito ne parlo in poco più di cinquanta pagine -, ma sarebbe certamente noioso per chi non avesse interesse specifico.

Veniamo adesso all'appellativo MAGMA DOMUS ed al predicato DI CALABRIA, nei secoli goduto da questa famiglia.

Giovanni Ritonio ritenne che fin dai tempi in cui la famiglia Ruffo dominava in Calabria all'epoca greco-bizantina (e dunque precedente all'arrivo dei Normanni), essa fu chiamata Magna Domus. Anche su questo non ci fu accordo. E' certo, però, che la Casa Ruffo fu chiamata Magna Domus appena entrò in uso quel titolo. In ogni modo godeva già quell'appellativo nel secolo XIII, come si può rilevare da diplomi e scritture di quel tempo. Ne ha scritto il già citato Fra Simone da Lentini Vescovo di Siracusa. Nel XVI secolo ne scrisse anche l'Ammirato, affermando che la famiglia Ruffo si era resa illustrissima fin dal tempo dei Greci per l'aiuto a loro prestato per la riconquista della Calabria e della Puglia ed il Summonte, scrivendo della stessa famiglia, affermò che "era stata ed era grande nel Regno sì per il dominio ch'ella aveva tenuto di molte castella in Calabria, come anco per la sua grandissima antichità". Lo abbiamo letto anche nella cronaca del Cardinale Leone Ostiense.

Per accontentare i più esigenti riporterò un'altra affermazione del Summonte: "La Casa Ruffo fu annoverata tra le sette più antiche famiglie superiori del regno di Napoli" che, elencandole in ordine alfabetico erano "Acquaviva, Celano, Evoli, Marzano., Molise, Ruffo, Sanseverino". Estintesi le Case Evoli, Marzano e Molise furono sostituite da quelle di Aquino, Del Balzo e Piccolomini. Infine anche Alessandro Dumas volle dire la sua scrivendo: "....vi è un proverbio italiano che dice, per accennare ai principi della nobiltà nei vari paesi, gli Apostoli a Venezia, i Borbone in Francia, i Colonna a Roma, i Sanseverino a Napoli, i Ruffo in Calabria". Le stesse cose si possono affermare per il predicato di Calabria, che troviamo accanto al nome dei vari personaggi del Casato in documenti riguardanti i Ruffo vissuti nel primo secolo del secondo millennio.

Per dovere di completezza occorre soffermarsi ancora su due altre "evenienze": l'epoca della concessione ai Ruffo del titolo di Conte di Catanzaro - titolo certamente goduto da Pietro I nel 1250 - e della tradizione familiare a firmarsi Dei gratia Comes Catanzari. Pur essendo argomento di scarso rilievo storico, in passato ci fu discordanza di giudizio non tanto tra gli storici quanto tra gli studiosi di "cose nobiliari". Alcuni scrissero che Pietro I fu fatto Conte da Corrado IV nel 1252, altri da Carlo I d'Angiò nel 1265 (Pietro I in quell'anno era già morto da nove anni), ed altri ancora che un Pietro di quel casato lo era già in epoca normanna. Oggi si può affermare che avevano tutti ragione. Pietro I Ruffo di Calabria fu investito di quel titolo nel 1252 dall'Imperatore Corrado IV (forse non a torto, alcuni affermarono che si trattò di conferma e non d'investitura), lo stesso Pietro fu riconfermato nel titolo dal Pontefice Innocenzo IV nell'ottobre del 1254 ed, infine, suo nipote Pietro II (ex avo). Ricordo che i due Pietro furono a lungo identificati in un unico personaggio dalla vita assurdamente lunga) Pietro II fu investito della Contea di Catanzaro da Carlo I d'Angiò nel 1265. Un altro Pietro Ruffo, che fu elevato alla Porpora Cardinalizia da Papa Gelasio II nel 1118, era detto di Catanzaro. Considerato lo scarso interesse storico che l'argomento riveste, basta fare una semplice considerazione che, se non servirà a farci risalire con certezza all'epoca di concessione, potrà portarci a conclusione molto verosimile: I Ruffo usarono la formula "Dei Gratia Comes Catanzari" quantomeno nei loro privilegi risalenti ad epoca Fridericiana e del primo Angiò, come si può leggere in molti documenti d'archivio. In documenti del 1250/52 usarono anche la formula "Dei et Regia gratia". Se non avessero avuto alcun diritto di farlo, avrebbero quei sovrani convalidato privilegi dei Ruffo nei quali, come Conti di Catanzaro, essi non si dichiaravano vassalli reali? Tanto basta a dar ragione a coloro che fanno risalire quel titolo ad epoca normanna o, addirittura, ancora anteriore. I bizantini non avevano nell'ordinamento dello Stato il feudo ed i titoli nobiliari, tuttavia nei loro domini di Calabria e Puglia - spesso occupati con le armi dai Saraceni - nelle famiglie dominanti era invalsa l'usanza di imitare i Longobardi e così, quando il cavaliere di un Casato riconquistava con le proprie forze le terre occupate dai Mori, si dichiarava Conte o Duca per Grazia di Dio, formula attraverso la quale affermava il diretto, assoluto dominio su quella terra avuta per diritto di conquista. Evidentemente questo avveniva in epoca di decadimento delle armi Bizantine. I Ruffo, infatti, negli anni che vanno dal 1086 al 1105 combatterono assieme ai Normanni tanto i Greci quanto i Mori.

Per chiudere il capitolo resta soltanto da accertare quando e da dove i Ruffo arrivarono in Calabria. In passato su tale argomento si scrissero interi volumi di tanta noiosa lettura e così pieni di cavilli da consigliarmi di farne soltanto un accenno.

I Ruffo erano arrivati a Costantinopoli da Roma, al tempo di Costantino il Grande. In Calabria arrivarono nel corso del ventennio 870/890 (per qualcuno verso il 979) con un Giovanni Fulcone - discendente di Marco Antonio Ruffo, generale dell'Imperatore Giustiniano II - la cui figlia Berenice era andata sposa all'imperatore Basilio II (per altri Basilio I). Questo Giovanni Fulcone (abbiamo già incontrato un altro Ruffo di tale nome), governatore della Calabria Citra ed Ultra, liberò quella provincia dal dominio Saraceno. E' superfluo aggiungere altro su tale argomento, poiché - come ho già scritto - pubblicherò un privilegio di Ruggero II, primo Re Normanno, datato Palermo aprile 1146  nel quale si legge tanto da dove arrivarono i Ruffo in Calabria quanto della loro potenza militare nella Calabria di quel tempo. Mi chiedo: basterà a mettere - per così dire - un punto fermo alle discussioni sulla discendenza dei Ruffo dal patriziato di Roma, sulla qualifica di "Magna Domus", sull'appellativo "di Calabria", ed, infine, sul "Dei Gratia" e sul "Dei et Regia Gratia, usato nei secoli dai cavalieri di quel sangue?

CAPITOLO II

Nell'archivio di Casa Ruffo di Calabria - quella parte che nell'aprile del 1947  da Luigi Ruffo di Calabria, Duca di Guardia Lombarda, fu affidata in custodia all'Archivio di Stato di Napoli - esiste una pergamena (in copia) appartenente alla serie "Privilegi". E' un privilegio di Re Ruggero, scritto in greco con a fianco la traduzione latina, dell'aprile dell'anno 1146, con il quale quel Re concedeva a Gervasio Ruffo, cadetto della Casa di Calabria, le terre di "Minzillicar e Chambucas, site nel tenimento di Sciacca.

Questo documento, seppure limitatamente agli ultimi cinquant'anni, è abbastanza noto non soltanto agli storici, ma anche ai cultori o ai semplici appassionati di studi storici. Lo citano un po' tutti, ma certo nessuno lo ha mai letto, almeno tra quelli che hanno scritto sulla genealogia di Casa Ruffo e su quel periodo della nostra storia. Se lo avessero letto, infatti, non avrebbero avuto necessità né di congetturare sull'origine Casato, né di fare - anche qui non senza perplessità e riserve - riferimento ad antiche opere per immaginare l'epoca d'arrivo dei Ruffo in Calabria, la loro provenienza, quale condizione avessero avuto in quella Regione, prima dell'insediamento dei Normanni.

Qui di seguito mi propongo di riprodurre la traduzione e la copia fotografica di quella parte del documento che interessa l'argomento in questione. Pubblicherò in altra parte del presente scritto l'intero documento, per offrire a chi ne ha interesse - com'è giusto - la possibilità di leggerlo anche in originale. 

Intanto mantengo la promessa di riportare in traduzione ed in copia quella parte del privilegio che riguarda il discorso di cui sopra: 

RUGGERO RE IN CRISTO DIO PIO E POTENTE RE

Nel mese di aprile della presente indizione settima. Mentre siamo dimoranti serenamente e per la gloria di Dio esercitiamo la nostra Potenza nella città di Palermo ed a Dio piacendo abitiamo in questo stesso Palazzo nel quale viene innanzi alla Nostra Maestà [Potenza] il fedele alleato [compagno] d'arme (fidelis armorum socius) lo stratiota (stratiotes) Signore (Dominus) Gervasio Ruffo che presenta domanda e supplica (postulans et supplicans) di avere [terre] non soltanto per il pascolo dei suoi animali ma anche per la coltivazione (pro aratio) perciò affinché abbia terre da coltivare tu ed i tuoi esperti (preceptores) ti diamo nel tenimento di Sciacca terre sufficienti alle tue necessità. [....]

Re Ruggero, dunque, riportando la dignità militare bizantina (Stratiota) di Gervasio Ruffo, certifica - per così dire - l'origine dei Ruffo e l'epoca del loro arrivo in Calabra. Definendolo, poi, "fidelis armorum socius", ci fornisce sicura notizia della potenza in quel tempo raggiunta in Calabria dalla Famiglia Ruffo.

Per completare l'argomento - confidando nella pazienza e nell'amore per la storia dei navigatori di Internet - riporto quanto scritto a tal proposito dal Duca Proto che, se non è di dilettevole lettura, serve a render chiaro ed a sintetizzare un discorso altrimenti lunghissimo e di ancor più noiosa lettura:

"Fu dunque in questi tempi ed in cotali infestissime vicissitudini, circa l'anno millesimo di nostra Salute, che lo Imperatore di Costantinopoli, avendo

perduto, per invasioni di mori e di principi e conti di stirpe longobarda, quasi tutti i suoi possedimenti nell'Italia, con il soccorso dei Ruffi e dei Giuliani ricuperò la Calabria e la Apulia. Il maggior scrittore di quei tempi ed il più autorevole per la veracità o verosimiglianza delle sue narrazioni, Leone monaco di Montecasino, e comunemente detto Leone Ostiense, dal suo cardinalato e vescovado di Ostia, nel secondo libro di quella sua istoria, che per modestia egli intitolava Cronaca Cassinese, così discorre di tal fatto "sed cum graecorum, qui paucis ante annis Apuliam sibi Calabriamque, sociatis sibi Ruffis atque Iulianis vendicaverunt insolentiam, fastidiunque Appuli ferre non possent, una cum Melo ipso et Dato, quidam equite nobilissimo Meli cognato, rebellare disponunt".

Quali che fossero questi Giuliani, che una con i Ruffo, secondo Leone Ostiense, ridussero novellamente in fede dei Cesari Bizantini le Provincie della Calabria e della Apulia, noi non sapremmo dire punto né poco. Conciossiaché di essi Giuliani non si trovi memoria, né prima né dopo l'anno millesimo, in quelle parti di Italia, e manco in quelle provincie che l'affrontano. Indubitato è che essi, dove avessero fatto veramente ciò che il Cardinale Ostiense narrava, dovevano essere altrettanto o di poco men che la Famiglia Ruffo potentissimi in quella regione, e però avrebbero dovuto lasciar di loro maggior memoria. Ma per avventura i Giuliani non sarebbero una seconda diramazione dei Ruffi medesimi, come spesso rinvienesi in quei tempi, che parecchi di un medesimo lignaggio venivano pur diversamente cognominati dal volgo, e solevano anche scriversi più con il nome che loro era comunemente dato, che con quello il quale avevano sortito per loro natali? Il cognome Iuliano, non sarebbe un aggettivo dei Ruffi per la loro consanguineità con gli Imperadori di Costantinopoli o pel discendere un ramo di essi da qualche signore di Casa Ruffo chiamato Giulio o Giuliano? Altri decida così fatta questione: noi lasciamo al benevolo lettore piena libertà di congetturare. Ma questo sì vogliamo si noti che per avere i Ruffo ed i Giuliani, od essi Ruffo solamente, soccorso gli Imperadori di Costantinopoli alla ricuperazione delle provincie della Puglia e della Calabria, indubitato è essi dover essere stati allora potentissimi, avere arme ed armati: ed arme ed armati non si ebbero a quei tempi, né nei secoli posteriori, da altri, che da coloro i quali possedevano terre e castella. Erano dunque già nell'anno millesimo (se già non l'erano stato in tempi più antichi, siccome crediamo aver chiaramente dimostrato) potenti signori nelle Calabrie i Ruffo, prima dello stabilimento della Monarchia delle Sicilie: e questo non può negarsi, né porsi in dubbio da veruno il quale abbia fior di senno od anche vulgare intelletto. E vogliamo pure si ponga mente alle parole, con le quali discorre del cennato fatto Leone Ostiense, dicendo esso autorevolissimo istorico, che l'Imperatore di Costantinopoli recuperò il dominio della Calabria e della Puglia sociatis sibi Ruffis atque Iulianis. La parola sociatis suona nel volgare nostro eloquio alleato, confederato: e però bisognerà pur convenire che la Famiglia Ruffo fosse sovrana nel mezzo giorno d'Italia, a quei tempi, oppur vi facesse le parti di sovrana. Conciossiaché, se i principi di essa fossero stati semplicemente baroni, non gli avrebbe chiamati come alleati l'Imperatore di Costantinopoli, ma gli avrebbe spediti come capitani e vassalli a combattere gli altri sudditi ribellati e riacquistar le provincie perdute. Oltraché non possiamo tacere, come Giannone e tutti gli altri storici delle nostre regioni, tutti convengano in questa sentenza, che gli Imperatori di Costantinopoli avevan magistrati in Italia ma non baroni, che i Greci del basso impero non conoscevano feudalesimo; e però, poiché terre e castella indiubitatamente possedevano i Ruffi nelle Calabrie, nell'anno millesimo e prima di esso, indubitatamente pure queste terre e castella le tenevano come assoluti padroni, come sovrani e non già come utile dominio, al par degli altri conti e castaldi e baroni e valvassori eccetera, che per avventura si trovassero allora in questa Italia Cistiberina. E questa nostra considerazione vuolsi bene tenere a mente, perciocché essa verrà lussuosamente a spiegare quello intitolarsi da sovrani che faceano, nei secoli posteriori al mille, i Ruffo conti di Catanzarto, i quali nei loro diplomi usavano la formula Dei gratia Comes: formula che indica chiarissimamente la sovranità, od almeno la pretensione o presunzione di libero e diretto dominio e possedimento. E noi non sappiamo qual altro signore del Regno avesse mai osato intitolarsi come facevano i Conti di Catanzaro, e, dove ve ne fosse stato, sapremmo grado e grazie a colui che volesse esser cortese di mostrarcene scrittura od altro monumento.

Giovanni Ritonio, nell'opera genealogica da noi citata più volte, discorrendo dei Ruffi di quel tempo, scrive: Petrus Ruffus predicti Costantii filius, sub principibus Northomandis (i quali veramente erano venuti nella meridionale Italia, ma non vi avevano ancora signoria e dominio certo) contra Mauros in Italiam militavit. Ed in ciò si accorda il Ritonio con Leone Ostiense, perciocché questo Pietro Ruffo figliuol di Costanzo ben potrebbe essere stato esso il capo di quella famiglia Ruffo, che gli Imperatori Costantinopolitani chiamarono in loro soccorso, per ricuperare il dominio della Calabria e della Apulia, provincie che allora dicevansi Italia, e tali erano veramente quasi esse sole, siccome crediamo aver già detto sopra. Quindi, continuando, esso Ritonio disse: idcirco ab hiis Comitatum Catanzari quorum praedecessorum a Mauris occupatum, ab eo deiectis, illis, per eundem Petrum, auxiliantibus praedictis Principibus Northomandis facillime optinuit. E ciò ben poteva essere, perciocché i Normanni, in sul loro primo entrare in queste nostre regioni, non facevan già la guerra per se medesimi, ma per altri principi o repubbliche ai quali ed alle quali talentasse valersi del loro braccio e della loro singolare perizia nel governar le cose della guerra, laonde Giovanni Ritonio proseguendo dice: Sic etiam nonnulla alia castra in Provincia Calabria Citra per Riccardum Ruffum fratrem adepta sunt. De istis vero nati nonnullis illustribus hominibus: de Petro vero Fulconus, Gerardus, Antonius et Philippus. De praedicto Gerardo Petri fratre, Ugolinus, Rubertus, Henricus, Guglielmus, et Landulfus, omnes baroni valorosissimi et multorun castrorum domini. Nunquam certe de hac Familia Principes Ecclesiasticos antiquis temporibus invenimus; eo quia fortasse, ipse sub militaribus ordinibus in servitio Orientalium Imperatorum vivisset, et postea Northomandorum contra Graecos in Italia pugnavisset, prout textat Leo Cardinalis Hostiensi in sua Historia. E qui il Ritonio si riporta alle parole medesime della Cronaca Cassinese, da noi addotte in mezzo, poco innanzi >>.

Così nel XIX secolo scriveva il Duca Proto, al quale non era noto il privilegio di Re Ruggero II.

Debbo confessare che non so resistere alla tentazione di completare il discorso del Duca Proto con alcune mie considerazioni sul diploma di Re Ruggero II, che servono a meglio illustrare i tempi ed il "linguaggio", diciamo di casta, in uso.

Re Ruggero nel suo diploma si esprime in due modi diversi nei confronti di Gervasio Ruffo (che rammentiamo essere stato cadetto del suo Casato). Quando riceve a corte Gervasio, in qualità di membro della famiglia con la quale era alleato in guerra (armorum socius), lo tratta da pari indicandolo con la dignità militare di "Stratiota", definendolo "fidelis" e qualificandolo "Dominus". Con la consessione di feudi, Gervasio diventa vassallo reale ed allora egli "postulans et supplicans", come facevano tutti i vassalli rivolgendosi al loro Signore. Gervasio non è più fidelis armorum socius perché il Re è ora il suo Signore e Padrone assoluto, e come tale al vassallo comanda e per il vassallo la fedeltà non è più una sua scelta: è un obbligo, un dovere.

Ecco, ove ve ne fosse stato bisogno, avvalorata l'affermazione del Proto che i Ruffo di Calabria erano in quel tempo Signori per "Grazia di Dio" delle loro Castella e non vassalli di alcun Monarca.

Avendo acquisito queste conoscenze è maturo il momento di discorrere della genealogia del Casato dei Ruffo. 

Credo di far cosa gradita ed utile ai "navigatori" di questo nuovo "mare etereo" - al quale, lo confesso, guardo con perplessità ed una certa diffidenza; ma io non faccio né meraviglia né opinione: sono rimasto cittadino del passato millennio - dicevo che credo di fare cosa gradita limitando le notizie genealogiche al periodo storicamente documentato ed ai personaggi più noti e indicativi. Alla fine, per i "naviganti" più esigenti ed appassionati, riporterò un albero genealogico lungo poco più di mille anni, ma rigorosamente limitato alla Linea primogenita ed aggiungo che sarebbe mia ambizione riuscire a fare qualcosa di diverso di un "elenco del telefono". Da ora in avanti, accanto al nome dei personaggi dei quali scriverò, riporterò tra parentesi il numero che nell'albero genealogico li distingue, al fine di facilitarne l'individuazione.

Scorrendo quest'albero si noterà che del primo personaggio, Giovanni Fulcone e fino al sesto, Pietro di Calabria Signore di Catanzaro, non si riportano i nomi delle rispettive consorti, che non sono noti.

Il periodo storicamente documentato inizia con (7) Giordano, che nel 1186 sposò Agnese sua consanguinea.

Il Loro figlio fu (8) Pietro I, portato dall'Imperatore Federico II ai più alti gradi della gerarchia militare ed alle più importanti cariche di governo. Su Pietro I gli storici ed i genealogisti fecero in ogni tempo una grande confusione, non avendolo distinto da suo nipote (ex avo) che portava il suo stesso nome. Come conseguenza era stata creata la figura di un Piretro Ruffo, protagonista dei maggiori eventi storici, che era  vissuto per più di cento anni. Dell'esistenza di due personaggi deallo stesso nome se n'era accorto e ne aveva documentatamene scritto D. Vincenzo Ruffo della Floresta, ma egli non era uno storico ed ebbe scarso credito. Fu merito di un grande calabrese, il sommo storico Ernesto Pontieri, d'aver fatto luce sui due distinti personaggi di ugual  nome - (8) Pietro I (1188-1257) e (10) Pietro II (1230-1310), ovvero avo e nipote - vissuti, il primo al tempo dell'Imperatore Federico, ed il II al tempo del regno di Carlo I e di Carlo II d'Angiò. Su (8) Pietro I e su suo nipote il Pontieri scrisse almeno tre volumi: "Pietro Ruffo di Calabria e la sua presunta fellonia", "Un Capitano della guerra del Vespro: Pietro II Ruffo di Calabria", "Ricerche sulla crisi della Monarchia siciliana nel secolo XIII". In questo terzo volume, che raccoglie alcuni studi giovanili - rivisti ed emendati "dalle sviste che per l'età e la disattenzione vi erano rimaste ", come lo stesso Pontieri scrive nella prefazione - il Pontieri fa una sintesi dei suoi scritti sulla crisi della monarchia siciliana nel secolo XIII.

Anche il Pontieri non condusse personali ricerche genealogiche sui personaggi dei quali scriveva, disponendo degli studi condotti da Francesco Scandone, il quale non fu sempre preciso e, di conseguenza, creò alcune confusioni. Io ne discuto lungamente nel mio scritto "I Ruffo alla Corte di Federico II" al quale rimando gli interessati (Lo scritto è presente nel sito www.sbti.org).

(8) Pietro I fu politico avveduto, fedelissimo alla casa Hoenstaufen ed ai voleri testamentari di Federico, anche quando Manfredi, figlio naturale del defunto Imperatore, usurpò il Regno a suo nipote Corradino. Fu il più tenace oppositore di Manfredi e, per ostacolare i suoi disegni d'usurpazione, lui Ghibellino, cercò aiuto e si associò al Papa. Sconfitto, riparò a Terracina nello stato della Chiesa, dove nei primi giorni di gennaio del 1257 morì proditoriamente pugnalato da un sicario di Manfredi.

Suo Nipote, (10) Pietro II, fu descritto come uno dei maggiori generali del suo tempo. Si scrisse che se il nipote avesse avuto l'acume politico dell'avo, e che se questi avesse posseduto le stesse capacità militari del nipote, gli eventi di quel tempo avrebbero avuto un corso diverso. Questo (10) Pietro II continuerà la Linea primogenita dei Ruffo di Calabria, detta dei Conti di Catanzaro.

Altro nipote ex avo di (8) Pietro I fu (1) Fulcone Ruffo di Calabria (1231-1256?). E' il capostipite e lo troviamo con il numero (1) nella Linea secondogenita, che subentrerà alla Linea primogenita quando, per mancanza di eredi maschi, i Ruffo di Catanzaro si estingueranno nei Centelles Ventimiglia nel corso della seconda metà del XV secolo. Questo stesso (1) Fulcone è il capostipite di tutte le Linee dei Ruffo, nostri contemporanei.

(1) Fulcone è anche conosciuto col nome di Folco o come il "rimatore della scuola poetica siciliana". Occorre brevemente parlare di lui che, nonostante abbia avuto vita breve, fu uomo che lasciò traccia di sé perché fu d'intelletto vivace e dotato di capacità militari da tutti ricordate.

E' indispensabile, per meglio far comprendere l'uomo (1)Fulcone, fare cenno alla personalità dell'Imperatore e descrivere l'ambiente di corte, nel quale dall'età di quattordici anni i valletti vivevano a stretto contatto con l'imperatore. 

Nel ricordato mio articolo "I Ruffo alla corte di Federico II", così scrivo dell'Imperatore e dell'ambiente di corte:

" [....]Dalla madre gli fu dato il nome di Costantino ma, in baptismo, quel nome fu mutato in Federico Ruggero: il nome dei suoi avi, il tedesco Barbarossa ed il normanno Ruggero II. Imperatore e Re si chiamò Federico II.

I suoi contemporanei lo definirono "stupor mundi", meraviglia del mondo, e    "immutator mirabilis", meraviglioso trasformatore. Ma "stupor mundi", nel linguaggio di quei tempi, significava anche "sovvertimento dell'ordine costituito, che genera paura e confusione"!

Giovanni Villani, cronista fiorentino (1280-1348), nella sua "Nuova cronica" fece questo ritratto di Federico II di Svevia:

"Questo Federigo regnò trent'anni Imperadore, e fu uomo di grande affare e di gran valore. Savio di scrittura, e di senno naturale, universale in tutte le cose. Seppe la lingua latina, e la nostra volgare, tedesco e francesco, greco e saracinesco e di tutte virtudi copioso. Largo e cortese in donare, prode e savio in arme, e fu molto temuto. E fu dissoluto in lussuria in più guise e tenea molte concubine e mammalucchi a guisa de' saracini. In tutti i diletti corporali volle abbondare, quasi vita epicurea tenne, non facendo conto che mai fosse altra vita. E questa fu l'una principale cagione perché venne nemico de' chierici e di Santa Chiesa".

E' un ritratto vagamente somigliante al personaggio reale, che risente chiaramente di varie influenze: clima politico degli anni che seguirono ai vespri siciliani; le fonti alle quali l'ex mercante fiorentino, diventato cronista, si ispirò. Più vera ed in maggiore accordo con quanto scrissero molti autori, alcuni contemporanei dell'Imperatore, è la descrizione che diedefece fra Simone da Parma (1221-1287), il quale conobbe di persona Federico II:

"Era un uomo scaltro, avaro, lussurioso, collerico e malvagio. Di tanto in tanto tuttavia rivelava anche buone qualità, quando era intenzionato a fare mostra della sua benevolenza e liberalità: sapeva allora essere amabile, gentile, pieno di grazia ed esternava nobili sentimenti. Leggeva, scriveva, cantava e componeva melodie. Era bello e ben fatto, sebbene di non alta statura. Io una volta lo conobbi e per un certo tempo anche lo onorai ".

La lettura della cronaca di questo monaco, giunta sino a noi forse autografa, ed il ritratto che fa dell'Imperatore, mi fanno però venire in mente che egli, nel 1247, fuggì da Parma, assediata da Federico, per esulare in Francia in cerca di soccorso.

Ancora più completa e storicamente più veritiera è la descrizione che di Federico II fece Michele Amari ne "La guerra del vespro siciliano": " [...] pro' nelle armi, sagace e grande nei consigli, promotor delle scienze e delle lettere italiane, costante nemico di Roma. Raffrenò Federigo i feudatari, che nella fanciullezza sua si eran prevalsi; chiamò nei parlamenti nostri i sindichi delle città; represse nondimeno gli umori di repubblica; riordinò vigorosamente i magistrati; vietò, primo in Europa, i giudizi ch'empiamente chiamavan di Dio; dettò un corpo di leggi, ristorando o correggendo quelle dei Normanni; le entrate dello stato ingrossò, e troppo. Macchiano la sua gloria, severità e avarizia nel governo; e mal ne lo scolpa la necessità di tender fortissimo i nerbi del principato, per aiutarsene alla guerra di fuori".

A distanza di sette secoli una considerazione, può fare cornice a quanto scritto, in tutto questo tempo, su Federico II -e sugli Hoenstaufen in genere-;

un Papa creò Federico Imperatore e Re: Innocenzo III, grande Pontefice ed accorto uomo di stato. Un altro Papa, poco dopo la morte dell'Imperatore, la dinastia degli Hoenstaufen letteralmente distrusse: Urbano IV, al secolo il francese Jacques Pantaleon, scialba figura di nessun rilievo nella storia della Chiesa. 

Questo fu essenzialmente Federico II e tanto uomo non poteva che avere attorno a sé una corte altrettanto grande e meravigliosa. Per alcuni suoi aspetti, la decantò anche Brunetto Latini, che ebbe modo di frequentarla. Una corte da sovrano orientale, scrissero molti contemporanei, colpiti dall'aspetto più appariscente ma che costituiva solo un "contorno", destinato essenzialmente ad impressionare le plebi. Ed i Papi, che avrebbero avuto ben altre accuse da muovere a Federico, quando vollero contro di lui far leva sul popolo lanciando i loro anatemi, a quell'aspetto della corte fecero riferimento. Altro dava lustro e rendeva unica al mondo la corte imperiale, che riconosceva nell'Imperatore, assiso sul trono della giustizia, l'unica fonte del diritto! Questo splendore sfuggiva alle masse, ma era ben percepito dagli uomini di "senno": a corte viveva ed operava il fior fiore degli uomini di cultura di quel tempo. Diversi per nazionalità, razza, religione; della più varia estrazione sociale, in gran parte giovani o addirittura giovanissimi, in comune avevano tutti la sete di apprendere o d'insegnare. A corte vigeva il concetto che "colla scienza si acquista fama, con la fama si arriva all'onore distinguendosi dagli altri, e con l'onore si consegue la ricchezza". Non per nulla Pier delle Vigne poteva scrivere ad un amico: "A corte hanno le mammelle della retorica dato latte a molti spiriti eletti".

Mentre presso la cancelleria imperiale, vera scuola di "ars dictandi", la vita letteraria di corte aveva il suo cenacolo, attorno e direttamente a contatto con l'Imperatore, invece, unitamente a quelli letterari ai quali, in questo caso, era riconosciuto valore propedeutico, fiorivano particolarmente gli studi scientifici e quelli dell'arte militare. Taluni giovani, ritenuti specificatamente dotati, ai quali maestri della statura di Pier delle Vigne e di Michele Scoto avevano già aperto vasti orizzonti letterari, qui erano istruiti nelle discipline scientifiche seguendo metodi in parte empirici, affinché fossero stimolati all'osservazione diretta, perché l'uomo dotto - sosteneva l'Imperatore - per ben riuscire nello studio delle scienze deve "cominciare di nuovo a guardare coi propri occhi", ed acquisire la capacità di dare al "vedere" compiuta espressione.

Presso questa corte, dove trionfava la cultura laica, che trovava per la prima volta forma ben definita, si andava forgiando un nuovo genere di cittadino capace, in ugual misura, di imprese guerresche o intellettuali; i funzionari non si identificavano, come un tempo, con il ceto feudale e tanto meno con quello dei chierici, ma erano scelti tra i più eletti delle diverse discipline, direttamente dall'Imperatore. Di conseguenza rivestire la dignità di funzionario non costituiva un "beneficium" bensì un "officium" e per tale motivo non soltanto erano inconcepibili le cariche ereditarie, ma lo sviluppo delle carriere avveniva solo ed esclusivamente per merito.

A corte vissero tra gli altri alcuni membri del casato dei Ruffo che, per essersi distinti nelle lettere, nelle scienze e nell'arte militare, furono molto vicini e particolarmente cari all'Imperatore[....].

Tra questi Ruffo vi fu (1) Fulcone, figlio di (9) Ruggero di Calabria e Belladama e dunque fratello di (10) Pietro II e nipote ex avo di (8) Pietro I. Traggo sempre dal citato mio scritto, altre notizie su Fulcone e sulla vita a corte dei valletti:   

"[....] Com'era uso presso quella corte, Fulcone iniziò la carriera come valletto imperiale a 14 anni, ossia intorno al 1243. Dovette essere dotato di particolare ingegno e di non comune capacità d'apprendimento se ancora giovanissimo lo troviamo, non ultimo, tra i rimatori di quella scuola. Furono certamente queste qualità che richiamarono su di lui l'attenzione e l'affetto di Federico II, che lo volle accanto a sé sino all'ultimo suo giorno di vita.  Addirittura, poche settimane prima della morte dell'Imperatore, ebbe da questi alcuni possedimenti in feudo, che erano appartenuti al filosofo di corte maestro Teodoro (da documenti d'archivio, invece, risulta che quell'investitura risale al 1247). A conti fatti quando morì l'imperatore Fulcone Ruffo non doveva avere ancora 20 anni.

Francesco Torraca, nella sua opera "Studi su la lirica italiana del duecento" (Bologna Zanichelli 1902) a pag. 127 scrive: "Una sola lirica di messer Folco di Calabria è giunta sino a noi; ma egli occupa non ultimo posto nella storia. Somiglia, per l'una cosa e per l'altra, ad Arrigo Testa. Nipote di Pietro Ruffo conte di Catanzaro, cugino o fratello del cavaliere Giordano Ruffo autore del "liber mascalciae", assistette agli ultimi istanti del grande Imperatore, del quale firmò il testamento".

Penso valga la pena soffermarmi a descrivere l'ambiente di corte, nel quale vivevano e maturavano esperienze di vita e di dottrina i valletti imperiali.

Nella scelta dei valletti o dei funzionari Federico II non dava importanza alla loro nascita, alla provenienza sociale o al colore della pelle, ma molto contavano le doti e le qualità personali. Un esempio per tutti: Giovanni Moro, figlio di una schiava saracena, ebbe a corte una posizione di rilievo, fece parte della "familia" e ricevette una baronia. Per quanto concerneva i valletti, numerosissimi erano tra questi i rampolli della nobiltà cavalleresca, ma anche sulla loro carriera era ininfluente la potenza o la ricchezza della famiglia dalla quale provenivano. I valletti (tra questi vi erano anche i figli di Federico II) vivevano a diretto contatto con l'Imperatore e ricevevano una educazione cortese-cavalleresca - a noi resa nota dalla poesia di quel tempo - unitamente a quegli insegnamenti che, da adulti, avrebbero fatto di questi adolescenti dei perfetti funzionari statali. La presenza di un gran numero di nobili tra i valletti trova spiegazione in una particolare circostanza: un nobile non poteva diventare cavaliere se prima non avesse servito come valletto. Dunque i rampolli della nobiltà regnicola passavano a corte gli anni della giovinezza e, come valletti, entrando a far parte della "familia", ricevevano un mensile di sei once d'oro ed il diritto di avere al servizio tre scudieri con relativi cavalli. I valletti rappresentavano il gradino più basso della gerarchia cavalleresca ed avevano a capo un siniscalco. Non avevano mansioni precise: erano destinati in particolare a servizi di "tipo cavalleresco".

I valletti cessavano il servizio a corte quando si fossero guadagnato il cingolo cavalleresco. Andavano allora a ricoprire, ancor giovani, cariche amministrative importanti o servivano nell'esercito o ritornavano nei loro feudi. Altri erano avviati agli studi universitari. In ogni caso l'essere stati partecipi della vita di corte dava loro un grande prestigio ed apriva molte carriere. Al padre di un valletto scrisse una volta l'Imperatore: " Noi abbiamo accumulato su di lui i rudimenti delle virtù, affinché si sentisse degno di sé, agli altri utile e a noi fruttuoso".

In tale ambiente fu educato Fulcone Ruffo. Non fa dunque meraviglia che, forse neppure diciottenne, fosse annoverato tra i più apprezzati rimatori e ricevesse ancora in giovanissima età direttamente dall'Imperatore l'investitura di cavaliere e la titolarità di feudi.

Trovano legittimazione anche gli incarichi importantissimi che Fulcone ebbe negli anni 1251-52 quando in Istria firmò come testimone concessioni imperiali ed attese a ricevere il novello Imperatore Corrado IV. Nel 1254 fu, dal suo avo Pietro I, posto a capo degli ambasciatori inviati al Papa.

Come soldato fu lodato persino dall'Anonimo - cronista denigratore del casato dei Ruffo - quando sotto le mura di Aidone fermò l'impeto di quell'esercito, che stava per travolgere le truppe al comando del suo avo. E lo stesso Anonimo non seppe trovare che espressioni di rispetto quando narrò di Fulcone che, arroccato nei suoi castelli di Bovalino e Santa Cristina, tenne testa per quasi due anni all'esercito di Manfredi.

Nel 1253 Fulcone sposò Margherita di Pavia, figlia di Messer Carnelevario, dalla quale ebbe i figli Enrico e Fulco II. Non si conoscono la data e la causa della sua morte, ma nel 1266 certamente non era più in vita [....].

Temo d'avere scritto un po' troppo su Fulcone, ma il personaggio lo richiedeva.

Suo fratello (10) Pietro II, al quale ho più sopra fatto cenno, nel 1266 fu da Carlo I d'Angiò reintegrato nei feudi e nel titolo di Conte di Catanzaro, posseduti dal suo avo (8) Pietro I. Sposò una dama di gran Casato, Giovanna d'Aquino, dalla quale ebbe sei figli. (11) Giovanni continuò la Linea primogenita, mentre un altro figlio di nome Giordano dette vita al ramo dei Conti di Montalto, che tanto lustro ebbe nei secoli seguenti.

La Linea dei Conti di Catanzaro Marchesi di Cotrone si estinse con (15) Enrichetta nei Centelles Ventimiglia, nella seconda metà del secolo XV.

Questa Enrichetta era figlia di (14) Nicolò, del quale darò brevi notizie nell'albero genealogico.

Genealogia dei Ruffo di Calabria

Linea primogenita diretta

1. Giovanni Fulcone generale bizantino

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2. Pietro Signore di Calabria ed Apulia (970)

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3. Costanzo Signore di Calabria

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4. Pietro di Calabria Possedette la Terra di Catanzaro per diritto di conquista da cui l'intitolazione "Dei gratia comes Catanzari" usata nei secoli successivi  dai suoi discendenti.

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5. Filippo di Calabria Signore di Catanzaro. Suo nipote Pietro, figlio di suo fratello Giordano, fu fatto Cardinale da Papa Gelasio II nel 1118.

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6. Pietro di Calabria Signore di Catanzaro

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7. Giordano di Calabria. Sposò nel 1186 Agnese, dama dello suo stesso Casato.

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8. Pietro I di Calabria 1188-1257

Conte di Catanzaro. Sposò Guida di cui non si conosce il Casato. Fu vicere di Sicilia e Calabria, Gran Maresciallo del regno di Sicilia e Balio di Enrico, ultimogenito dell'Imperatore Federico II.

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9. Ruggero di Calabria n. nel 1209. Nel 1229 sposò Belladama. Nel 1235 fu Presidente del regno di Sicilia. Premorì al padre. Ebbe cinque figli: Pietro (II), Fulcone (I), Giordano, Guglielmo, Giovanni.

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10. Pietro II di Calabria Conte di Catanzaro 1230-1310. Nel 1254 sposò Giovanna d'Aquino. Nel 1266 fu da Carlo I d'Angiò reintegrato nei feudi e nel titolo del suo omonimo avo. Combatté strenuamente per i primi due Angiò.

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11. Giovanni di Calabria Conte di Catanzaro n. 1255. Sposò Francesca di Licinardo. Fu Signore di un vasto e potente stato ricco di più di 40 castelli.

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12. Pietro III di Calabria Conte di Catanzaro. Morì nel 1344. Sposò Sibilla di Reggio.

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13. Antonello di Calabria Conte di Catanzaro + nel 1383                                                 

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14. Nicolò di Calabria Conte di Catanzaro e Marchese di Cotrone (ottobre 1390) + 1445. Signore di vastissimo stato ebbe vita molto travagliata ed alterne fortune presso le due Dinastie che in quel tempo si contendevano il Regno. Sposò due volte; della prima moglie - che morì mentre erano rifugiati in Provenza - non si conosce il nome, la seconda fu Margherita di Poitiers Figlia di Ludovico Sire di Saint Valier, familiare della Casa d'Angiò.

Non ebbe discendenza maschile. Fu fiero avversario di Re Ladislao nonostante avesse ottenuto da questi il Marchesato di Cotrone.

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15. Enrichetta di Calabria Contessa di Catanzaro e Marchesa di Cotrone.

Sposò il Conte di Calisano Antonio Centelles Ventimiglia. Ebbe vita molto travagliata e tragica, perdendo il marito ed il suo stato a causa delle due congiure ordite da questi contro la Dinastia Aragonese. Il suo unico figlio maschio morì decapitato mentre era prigioniero dei Turchi. Con Enrichetta si estingue la Linea primogenita dei Conti di Catanzaro. Subentra la Linea secondogenita dei Conti di Sinopoli, che faccio partire dall'avo comune alle due Linee che fu (9)Ruggero.

Linea secondogenita diretta

9  (Ruggero di Calabria-Belladama 1229) (vedi riferimento in primogenitura)

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1. Fulcone I n.1231 + tra il 1256 ed il 1266

Signore di Sinopoli, Bovalino, S. Cristina Bruzzano etc. Combatté valorosamente contro Manfredi. Fu caro a Federico II che l'armò Cavaliere nel 1247 investendolo dei feudi di S. Cristina e Placanica.  Firmò il testamento dell'Imperatore ed accompagnò la salma a Palermo. E' noto anche come Folco, rimatore presso la Corte imperiale. Nel 1254 sposò Margherita di Pavia, unica figlia di Messer Carnelevario. E' il capo della Linea di Sinopoli, diventata Linea principale dopo l'estinzione di quella primogenita di Catanzaro. Da questo Cavaliere discendono tutti i Ruffo, divisi in vari rami, viventi alla fine del secondo millennio.

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2. Enrico I di Calabria 1255 - 1321 Sposò Margherita di San Lucido. Re Carlo I d'Angiò nel 1266 lo reinvestì dei feudi paterni. Combatté strenuamente per i due primi Angiò. Fu Ciambellano di Carlo II, Vicere della Calabria etc.     

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3. Guglielmo I di Calabria 1° Conte di Sinopoli nel 1334. Sposò: 1° Caterina Alemagna, 2° Eloisa d'Eroille de Barulo. Re Roberto, concedendogli il titolo di Conte sulla Terra di Sinopoli, lo preferì al fratello maggiore Fulcone III signore di Bovalino e di ricco stato. Fu motivo di discordia tra i due fratelli. Il figlio di questo Fulcone III, Nicolò (+ 1372), il cui sarcofago si vede nella Chiesa di S. Francesco a Gerace, chiamò erede un suo omonimo della 1° Linea di Catanzaro.

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4. Enrico II di Calabria 2° Conte di Sinopoli. Dopo la sua prematura morte la Contea passò a suo fratello Fulcone IV, piuttosto che a suo figlio Antonello di età minore. Questo Antonello sarà il capostipite del ramo dei signori di Condoianni.

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5. Fulcone IV di Calabria + 1392 fu 3° Conte di Sinopoli. Sposò: 1° Covella d'Alife, 2° Martuscella Caracciolo

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6. Guglielmo II di Calabria + 1414, 4° Conte di Sinopoli (1393). Nel 1381 sposò Lucrezia Caracciolo Contessa di Gerace.

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7. Carlo di Calabria 5° Conte di Sinopoli (1414). Nel 1449 fu Conte di Gerace. Alfonso I d'Aragona nel 1444 lo aveva creato Governatore Generale della Calabria. Sposò: 1° Caterina Grimaldi (1415), 2° Maria Centelles sorella di Antonio. Carlo partecipò alle due congiure ordite dal cognato conosciute come "congiure dei baroni", fu dichiarato ribelle ed ebbe confiscato la stato (1458).Nato nel 1382 morì a 84 anni nel 1466.                                                          

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8. Giovanni di Calabria 6° Conte di Sinopoli. Conte di Butera. Visse gran parte della sua vita privo di stato e di titoli. Rientrato nelle grazie di re Ferrante riebbe la Contea di Sinopoli, quella di Butera e buona parte del vecchio stato. Sposò: 1° Eleonora di Cardenas familiare della Casa d'Aragona, 2° Caterina Marchetti + 1502, 3° Petruccella Cirino dalla quale ebbe i figli Paolo, Antonino, Violante, Albina e Diana. Morì nel 1519. Fu erede Paolo, all'epoca neppure quindicenne. Antonino sposò Beatrice Consolino, dama d'antico Casato, dando inizio ad un ramo secondogenito che, a motivo delle peripezie vissute dal Casato, che aveva rischiato di scomparire con il suo avo Carlo, fu infeudato ma non titolato. Visse a Terranova. Il suo discendente Girolamo ritornò nel 1545 nella terra di Motta Bovalina, godendo il giuspatronato della ricca Abbazia di S. Maria di Pugliano e di quelle di S. Nicola di Butramo e di S. Maria di Camocisse. (Arch. Segr. Vatic. Reg. Later. 1590, cc 134-135. Pontefice Paolo III anno 1544) Simone Sisinio, Protopapa di Motta Bovalino, il 9 aprile 1545 raccolse a Terranova il giuramento di buona amministrazione dei beni del giuspatronato.

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9. Paolo di Calabria 7° Conte di Sinopoli 1° Signore di Scilla. Sposò Caterina Spinelli. Con Paolo si delinea la Casa dei Ruffo di Sinopoli-Scilla, Linea primogenita essendosi estinta quella di Catanzaro. Visse ed operò perché il suo Casato ritornasse agli antichi splendori e fu sorretto in tale impresa dai suoi familiari. Suo fratello Antonino rinunciò perfino all'assegno di militanza, che gli spettava come secondogenito, vivendo a Terranova come piccolo feudatario. Nel suo testamento Paolo lo cita ad esempio a suo figlio ed erede Fabrizio. I discendenti di questo Antonino, tuttora viventi, furono infeudati ma non titolati. Nel 1535 Paolo ospitò l'Imperatore Carlo V, di ritorno dall'impresa d'Africa, in un padiglione fatto per quell'occasione costruire sulle falde dell'Aspromonte. Nel 1533 comprò da Gutierre de Nava, marito di sua sorella Violante, la terra di Scilla. Fu valoroso condottiero. Quando nel 1533 era Capitano d'armi di Reggio, il Conte Paolo respinse l'assalto del feroce Aricodemo Barbarossa, che guidava l'armata turca, impedendogli lo sbarco ed il sacco di Reggio e dei paesi della costa.

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10. Fabrizio di Calabria 1533-1587.  8° Conte di Sinopoli, 1° Principe di Scilla (31 luglio 1578) presidente del Regno di Sicilia (1582).

Sposò 1° Ippolita de Gennaro Contessa di Nicotera; 2° Isabella Acquaviva. Dalla 1° ebbe soltanto Maria, che gli succedette, dalla 2° soltanto Margherita.

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11. Maria di Calabria 9° Conte di Sinopoli, 2° Principe di Scilla, Contessa di Nicotera. Sposò suo cugino Vincenzo figlio di Marcello, fratello di suo padre, e di Giovanna de Bonavides de Alarson.                  

Vincenzo, maritali nomine, fu investito dei titoli della moglie, fu anche il 1° Marchese di Licodia. Nel 1598 soccorse Reggio contro i Turchi. Morì il 3/6/1616. Non ebbe discendenza maschile.

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12. Giovanna di Calabria 10° Conte di Sinopoli, 3° Principe di Scilla etc. Nel 1615 sposò suo cugino Vincenzo figlio di suo zio Muzio (a sua volta figlio di Marcello) e di Camilla Santapau. In 2° nozze (1634) sposò Francesco Carafa Duca di Nocera. Dal 2° matrimonio non ebbe discendenza. Vincenzo Ruffo di Calabria, maritali nomine, assunse i titoli della moglie ed il 21 maggio 1622 aggiunse il titolo di Principe di Palazzolo. Al proprio cognome aggiunse quello materno di Santapau, che i suoi discendenti portarono. Morì nel 1632.

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13. Francesco Maria di Calabria 1619-1704 11° Conte di Sinopoli, 4° Principe di Scilla, Conte di Nicotera, Principe di Palazzolo, Marchese di Licodia. Celibe. Gli successe il nipote Guglielmo, figlio di suo fratello Tiberio (1627-1683) che nel 1666 aveva sposato Agata Branciforte.

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14. Guglielmo III di Calabria 24/6/1672-4/11/1748. 12° Conte di Sinopoli, 5° Principe di Scilla, Conte di Nicotera, Principe di Palazzolo, Marchese di Licodia. Fu signore di molti feudi. Nel 1724, assieme al figlio Fulco Antonio, fu aggregato al Seggio Capuano di Napoli. Il 14/6/1699 sposò Silvia della Marra Duchessa di Guardia Lombarda. Aggiunse ai propri anche il titolo della moglie e fu il 1° Duca di Guardia Lombarda. Fu questo il Principe di Scilla del quale parla Alessandro Dumas nel suo "Storia dei Borbone di Napoli".

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15. Fulco Antonio I di Calabria 13° Conte di Sinopoli, 6° Principe di Scilla, Conte di Nicotera, Principe di Palazzolo, Marchese di Licodia, Duca di  Guardia Lombarda . Nacque a Scilla il 22/4/1702. La sua vita fu molto travagliata anche per le interminabili liti che ebbe con l'Università di Scilla. Nel 1719 sposò: 1° Teresa Tovar de Strada, figlia del Marchese Pietro di S. Marcellino; 2° Maria Grazia Giuffrè. Morì tragicamente, assieme ad una sessantina di cortigiani e familiari, la notte tra il 4 ed il 5 febbraio 1783 a causa del maremoto che seguì immediatamente al terremoto che quella notte distrusse gran parte della Calabria occidentale. Avendo qualche ora prima abbandonato il Castello, che aveva subito qualche danno dal terremoto, si era rifugiato su una barca, che fu portata via dal maremoto. Il suo corpo non fu ritrovato. Essendo a lui premorto (1782) il figlio Guglielmo Antonio, gli successe il nipote del suo stesso nome.      

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16. Fulco Antonio II di Calabria, nato in Santo Onofrio il 16/5/1749 morì in Napoli il 9/4/ 1803. 14° Conte di Sinopoli, 7° Principe di Scilla, etc. etc. Il 14/9/1771 sposò in Napoli Maria Carlotta della Leonessa, figlia di Giuseppe Ruffo Principe di Sepino.                                        

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17. Fulco Giordano Antonio di Calabria nacque a Scilla il 11/7/1773, morì in Napoli il 18/4/1852; 15° Conte di Sinopoli, 8° Principe di Scilla,  7° Principe di Palazzolo e Licodia, 3° Duca di Guardia Lombarda, 7° Conte di Nicotera e Marchese di Panaghia, Signore di Calanna, Filogaso e molti altri feudi. Fu Gentiluomo di Camera con esercizio (lo erano stati i suoi ascendenti). Ambasciatore presso la Corte di Spagna trattò il matrimonio di Maria Cristina di Borbone, figlia di Francesco 1°, con Re Ferdinando 7° di Spagna, che lo insignì dell'Ordine del Toson d'oro. Il 18 giugno 1828 fu fatto Grande di Spagna di 1° classe e fu insignito del titolo spagnolo di Duca di Santa Cristina, che con decreto del 28/12/1828 fu autorizzato ad usare nel Regno di Napoli. Nel 1832 ebbe l'incarico di rilevare ed accompagnare a Napoli la Principessa Maria Cristina di Savoia, che andava sposa a Ferdinando 2° Re delle Due Sicilie. In quell'occasione fu insignito del Collare della S.S. Annunziata. Fu Consigliere di Stato nel 1821, Ministro degli Affari Esteri nel 1844, fu Cav. di Gran Croce del S.M.O. di Malta. Sposò in Napoli il 23/1/1798 Maria Felicita Alliata, Dama di Corte, figlia di Fabrizio Principe di Villafranca. Di questo Fulco Giordano Antonio rimane un grande sigillo d'argento, conservato da familiari.

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18. Fulco Antonio III di Calabria, nacque a Napoli il 11/6/1801 e morì a Torino il 17/4/1848. Non usò i titoli di famiglia ma quello di Principe di Palazzolo. Si dedicò alla carriera diplomatica, fu segretario di Legazione a Madrid, incaricato d'affari alla Corte di Danimarca nel 1828, Ministro plenipotenziario a Torino. Sposò il 12/10/1835 Eleonora Galletti dei Principi di San Cataldo che, fra le tante decorazioni di cui fu insignita, ebbe la Croce di Ferro per le Dame per la guerra 1870-1871. Premorì al padre. 

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19. Fulco Salvatore di Calabria, nato a Palermo il 6/2/1837 morì a Napoli 30/6/1875. 16° Conte di Sinopoli, 9° Principe di Scilla, 2° Duca di Santa Cristina, 8° Principe di Palazzolo e Marchese di Licodia, 4° Duca di Guardia Lombarda, 8° Conte di Nicotera etc. etc.. Grande di Spagna di 1° classe. Seguì i Borbone in esilio. Sposò:  (20/10/1859) 1° Maria de Rombies du Barry ; 2° (10/9/1863) Maria Margherita de la Bonniniére de Beaumont. Non ebbe discendenza maschile. Dalla 1° moglie ebbe

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20. Eleonora Margherita di Calabria 10° Principe di Scilla, Duchessa di Santa Cristina, Contessa di Nicotera, Grande di Spagna etc.. Nata il 4/1/1861 morì nel 1959. Il 29/4/1878 sposò il Marchese Raffaello Torriggiani. Di lei si conserva un bellissimo ritratto a grandezza naturale nella Villa Torriggiani di Lucca, oggi proprietà di suoi discendenti i Duchi Colonna di Paliano. Per non fare estinguere la Linea dei Ruffo di Calabria, prima del matrimonio fece refuta a favore di due suoi zii paterni dei seguenti titoli, Principe di Palazzolo, Marchese di Licodia, Duca di Guardia Lombarda, Conte di Sinopoli che passarono a:                      |

1°  Fulco Francesco di Paola di Calabria Principe di Palazzolo e Marchese di Licodia (1842-1906). Servì in Marina dove raggiunse il grado di Contrammiraglio. Fu decorato di medaglia d'oro al V.M.. Fu aiutante di Campo di S.M. Umberto 1°. Sposò il 3/1/1874 la cugina Stefania Galletti dei Principi di S. Cataldo. Continuò con suo figlio Umberto la Linea primogenita dei Ruffo di Calabria.

2°  Fulco Beniamino di Calabria, nato a Genova il 9/7/1848 morì a Napoli il 28/4/1901. Fu 5° Duca di Guardialombarda e 17° Conte di Sinopoli (D. R. del 25/10/1881). Ricoprì vari pubblici uffici fra i quali quello di Sindaco di Napoli. Sposò a Bruxelles il 14/7/1877 Laura Mosselman du Chenoy. Condusse vita brillante e dispendiosa. Suo figlio Fulco di Calabria (12/8/1884-23/8/1946) , fu: 18° Conte di Sinopoli, 6° Duca di Guardia Lombarda, Principe sul Cognome (15/3/1928), medaglia d'oro al valor militare, Eroe ed Asso dell'Aeronautica Militare nella 1° guerra mondiale. Suo nipote Fabrizio Beniamino, figlio di Fulco e di Luisa Gazzelli di Rossana, continuerà la Linea primogenita poiché Francesco di Paola, figlio di Umberto, non lascerà discendenza maschile.

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21. Umberto di Calabria nato a Roma il 7/2/1883 morì a Firenze il 15/4/1944. Fu tenuto a battesimo da S.M. Umberto 1°. Ebbe moltissime onorificenze italiane e straniere. Fu decorato di medaglia di bronzo al valor militare, fu Mastro delle cerimonie di Corte. Sposò a Firenze il 26/2/1906 la cugina Isabella dei Marchesi Torrigiani e dei Principi di Scilla, acquisendone i titoli, maritali nomine, fu 11° Principe di Scilla. 

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22. Francesco di Paola di Calabria nato a Firenze il 25/6/1907 morto a Firenze il 9/1/1975, 12° Principe di Scilla, Principe di Palazzolo, Dottore in giurisprudenza. Sposò a Firenze il 18/2/1937 Oddina dei Conti Arrigoni degli Oddi. Non ebbe discendenza maschile. La primogenitura passò a:

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  • Fabrizio Beniamino* di Calabria nato a Roma il 5/12/1922 vivente. Principe sul Cognome, 19° Conte di Sinopoli, 13° Principe di Scilla, Principe di Palazzolo, Duca di San Martino, 6° Duca di Guardia Lombarda, Marchese di Licodia, Conte di Nicotera, Barone di Calanna e Crispano, Patrizio Napoletano, Grande di Spagna di 1° classe. Nato da Fulco di Calabria e da Luisa Gazzelli dei Conti di Rossana, il 5/10/1953 sposa Elisabetta Vaciago. Ha discendenza maschile.

* Il Principe Fabrizio Beniamino è morto a Roma il 10 0ttobre 2005

&

Dal Principe Fulco Ruffo di Calabria e dalla Contessa Luisa Gazzelli di Rossana, oltre il Principe Fabrizio, secondogenito, (1° dei maschi) nacquero:

1 D. Maria Cristina sp. Ing. Casimiro San Martino d'Aglié Marchese di San Germano;

2 D. Laura sp. il Barone Bettino Ricasoli Firidolfi;

3 D. Augusto (allievo della Nunziatella) + a 18 anni in combattimento sul mare di Pescara il 2/11/1943;

4 D. Giovannella + il 15/5/1941; 

5 D. Antonello sp. D. Rosamarie Mastrogiovanni Tasca dei Conti d'Almerita

6  S. M. La Regina Paola dei Belgi che riporta dopo mille anni nel Casato dei Ruffo la Dignità Regale.

o.

Io spero di essere riuscito a sintetizzare la storia del Casato dei Ruffo senza creare eccessiva noia al lettore. Per rendere completa la trattazione non mi rimane che mantenere la promessa di far conoscere l'intero privilegio con il quale Re Ruggero II infeudava Gervasio Ruffo delle terre di Cambucas e Minzillicar site nel tenimento di Sciacca. Mi limito a riportare la traduzione; il documento originale bilingue su due colonne, a sinistra in greco ed a destra in latino - come nelle pagine precedenti si è visto -, è presente sul sito (www.sbti.org).

DIPLOMA CON IL QUALE RE RUGGERO II° CONCEDE A GERVASIO RUFFO I FEUDI DI CAMBUCA E MINZILLICAR, SITI NEL TERRITORIO DI SCIACCA.

RUGGERO IN CRISTO DIO PIO E POTENTE RE

Nel mese di aprile della presente indizione settima. Mentre siamo dimoranti serenamente e per la gloria di Dio esercitiamo la nostra Potenza nella città di Palermo ed a Dio piacendo abitiamo in questo stesso Palazzo nel quale viene innanzi alla Nostra Maestà [Potenza] il fedele alleato [compagno] d'arme (fidelis armorum socius) lo stratiota (stratiotes) Signore (Dominus) Gervasio Ruffo che presenta domanda e supplica (postulans et supplicans) di avere [terre] non soltanto per il pascolo dei suoi animali ma anche per la coltivazione (pro aratio) perciò affinché abbia terre da coltivare tu ed i tuoi esperti (preceptores) ti diamo nel tenimento di Sciacca terre sufficienti alle tue necessità.

Regnando in pace (nostra vera serena potentia) possiamo accogliere le tue petizioni così come facciamo con quelle di chi a noi ricorre. Ho ordinato (mandavit) agli uffici competenti (officialibus secretorum) che diano a te ed ai tuoi eredi i feudi (tenimenta) che sono chiamati Minzellacar e Chambucae che sono comprese nel feudo di Sciacca (Saccae) con tutti i diritti nei confronti dei confinanti di quelle terre e ti sarà giovevole il presente Sigillo (iuvet tibi presentes Sigillum). E poiché ho dato ordini [come] incoronato da Dio e felicemente regnando in grazia di Dio ed avendo al presente il dominio (potestatem) sull'Isola di Sicilia, in futuro non si voglia o si osi contrastare la nostra per grazia di Dio autorità regale. Ma permangano in futuro in proprietà e dominio tuo e dei tuoi eredi libere da ogni violenza e molestia (liberae ab omni iniuria et molestia) tutte le sopradette [terre], ossia i feudi di Minzellacar e Chambucae. Cosicché si fa obbligo agli uffici preposti, per nostro reale mandato, che proteggano i feudi tuoi e dei tuoi eredi. E gli stessi, se sarà necessario debbono prestare l'aiuto delle nostre armi (auxiluium nostrae potentiae) in questa Isola di Sicilia unitamente con fanti ed armamenti (Ballistrarii  peditis) durante il mese di maggio e non oltre i confini lungo il vallone che è ai piedi di Chambuca fino alla città (?) e al detto grande fiume e per lo stesso vallone (ipsum vallonum) sale andando oltre un passo dopo l'altro (suprascando pedem pedem) i monti di Chambuca fino al luogo dove è la parte sul crinale per la quale si arriva alla valle detta dei lupi quindi (exinde)  va salendo salendo (sopram sopram [sic!]) fino al confine con il feudo di Adragna ed alle grandi pietre che sono propriamente sulla via pubblica che conduce da Adragna a Sciacca (per Adragnam a Saccam).  Da lì invece volgere lungo la via fino all'altro vallone che è in cima al monte a settentrione, e .... Per lo stesso vallone al ponte che è a metà del vallone sino alla sommità del monte. Poi discendendo lungo il vallone dover scorre l'acqua lungo la fonte fino alla congiunzione delle acque di questo vallone con l'altro che porta le acque di Adragno che è detto ACHECHELLO. Di poi va per terre in pianura verso settetrione e porta all'altra portella che è sopra un diverso vallone ed allo stesso vallone (?) dividendo la pianura procedendo verso settentrione e confinando con il feudo di Adragna passa ....... sino a quell'altro ...... che è in comunione ...... sopra quell'altro vallone dove scorre l'acqua che scende da ............ e ....... allo stesso vallone e per questo e per quell'altro scende verso occidente lungo il confine con ..... Misitindini (?) fino al luogo dove si congiungono l'acqua di questo vallone e l'acqua che scende per Minzellabio (?) quindi segue l'acqua del vallone che scende verso Minzellabio a settentrione e ...... va ad altro luogo dove si congiunge con la stessa acqua di Minzellabio e con quella che proviene da Minzel[sumion]. Quindi segue il corso della stessa acqua ad occidente fino alla fonte che è di fronte a Minzelli[meon]. Scende poi dalla parte superiore ...... e attraverso la pianura volge ad occidente fino al ponte che .......... Sopra il feudo seguendo l'argine fino al luogo [detto] del Dardo che è contro ed in faccia al fiume Cerab, quindi attraversa il fiume e va fino ai monti ed alle radici dei monti del Dardo lungo i confini del feudo di Minzelcarni e per il vallone che scende nel mezzo fino alla pianura di Minzelcarmi e va attraverso la pianura al vallone .......  ..........  ....... . Quindi a futura fede a Te Dominus Gervasio Ruffo ed ai tuoi discendenti con il presente Sigillo a sicurezza ed a conferma munita della nostra bolla in piombo (deinde ad futuram fidem ........ tibi Dominus Gervasio Ruffo et tuis heredibus presentes Sigillum ad sicuritatem et confirmationem ..... nostra plumbea bulla). Sigillata e firmata (sigillatam et signatam) nel mese e nell'indizione sopra indicate. Anno 6674? (6654?)  (1146, riportato tra parentesi e forse aggiunto dall'amanuense che ha eseguito la copia, che è poi l'anno corrispondente dell'Era volgare).

+ Rogerius in Cristo Dio Pio Potente Re e dei Cristiani aiutatore.

( + Rogerius in Christo Deo Pius Potens Rex et Christianorum auxiliator )