Giordano Ruffo – De Medicina Equorum

Giordano Ruffo di Calabria, secondogenito di Pietro I (1188-1257) conte di Catanzaro e vice re di Sicilia e Calabria, nacque verosimilmente a Tropea intorno all'anno 1188.

Ebbe come fratelli: Ruggero (1209-1236), padre del conte Pietro II (1231-1309); Serio (detto anche Sigerio) Maestro Maresciallo Imperiale, il quale fmnò come testimone, assieme al nipote Fulcone (1232-1256/66), il testamento di Federico II, ed una sorella Adriana andata sposata al conte Guglielmo di Borrello.

Giordano fu cavaliere molto caro all'Imperatore dal quale ottenne grandi onori e la carica di Maestro dei Cavalieri.

Nel 1240 fu castellano in Cassino. Fu anche Signore in Val di Crati e Terra di Giordano (appunto dal suo nome). La sua morte accadde tra il 1253 ed il 1254, non trovandosi più il suo nome nelle cronache dell'epoca, dopo tale anno. Il Giordano, che nel 1255 prese parte alla guerra tra il conte di Catanzaro Pietro I e Manfredi, era persona diversa. Era, infatti, figlio di Ruggero e Belladama e quindi nipote ex fratre del nostro. Non avendo avuto Giordano discendenza diretta, quando mori il suo Stato passò - sotto il nome di Stato del quondam Giordano - a suo padre Pietro I conte di Catanzaro il quale a quel tempo era Gran Maresciallo del Regno di Sicilia, Governatore del re Enrico, ancora bambino, e Vice Balio di Sicilia e Calabria.

Giordano fu autore di un trattato di medicina veterinaria (De medicina equorum), ultimato nel 1250, che piacque all'Imperatore Federico, egli stesso autore di un pregevole trattato di falconeria (De arte venandi cum avibus) alla compilazione del quale aveva attivamente collaborato anche Giordano.

Il trattato scritto da Giordano, che è uno degli esemplari più antichi di lingua siciliana, secondo quanto riferito da Del Prato, inizia con il passo seguente: "incipit liber Manescalchiae. Nui Messere Jordano Russu de Calabria volimo insegnari a chelli chi avinu a nutricari cavalli secundu chi avimu imparatu nela Manestalla de lu Imperaturi Federicu chi avimu provatu e avimu complita questa opira ne lu Nomu di Deu e di Santu Aloi".

Vincenzo Ruffo della Floresta, nel suo libro Pietro Ruffo di Calabria conte di Catanzaro, riferisce che un codice di tale opera trovasi, tradotto in lingua francese, nella biblioteca di S. Giovanni a Carbonara in Napoli, un secondo codice nella biblioteca Damiani di Venezia, un terzo presso il Museo Britannico.

Nella speranza di poter prendere visione almeno di uno di questi codici, dei quali molti hanno parlato ma nessuno ai giorni nostri ha affermato di aver letto, ho fatto delle ricerche che mi hanno consentito di poter disporre delle copie dei codici più attendibili attualmente esistenti e conservati in Italia ed all'estero presso archivi pubblici e collezioni private. La Biblioteca, per errore tipografico definita Damiani nel libro di Vincenzo Ruffo, non è altro che la Biblioteca Nazionale Marciana. Il codice "De medicina equorum" è ivi conservato con la segnatura Lat. 7°, 24 (3677); appartiene alla raccolta settecentesca di Giacomo Nani e dal medico veterinario Hieronjmus Molin, nel 1818, fu fatto stampare a Padova in lingua latina.

Partendo da considerazioni meramente scientifiche è questa l'edizione più pregevole oggi conosciuta.

Presso The Britsh Library esistono ben cinque volumi a stampa di due diverse provenienze. La prima, tradotta dal latino in volgare da Frate Gabrielo Bruno, ha avuto tre edizioni: Venezia 1442, Venezia 1554, Brescia 1611. La seconda ha avuto due sole edizioni: Venezia 1561 (per i tipi di Rutilio Borgominero), Bologna 1561 (per i tipi di Giovanni De Rossi). Presso questa stessa Biblioteca si trova un sesto volume in lingua latina (Hieronjmo Molin Padova 1818) ed appartiene alla edizione del volume conservato presso la Biblioteca Marciana di Venezia.

La lettura di questi testi mi ha consentito di rilevare un errore inconcepibile in uomini di cultura, quali presumo siano

stati Fra Gabrielo Bruno e Giovanni De Rossi. Tale errore è presente in tre di questi testi: edizione Venezia 1554, Brescia 1611, Padova 1818. L'errore consiste nell'aver confuso la persona dell'Imperatore Federico II con quella del suo avo Federico I Barbarossa. Nell'edizione in latino del 1818, edita dalla facoltà di medicina veterinaria dell'Università di Padova, quest'errore fu, in verità, bene evidenziato dal curatore dell'opera. L'averlo qui riferito a me serve soltanto per concludere che i tre volumi citati rappresentano effettivamente riferimenti, eseguiti in varie epoche da editori diversi, riconducibili ad un unico esemplare in lingua latina: quello tradotto in volgare, il 17 dicembre 1492 da "Gabriele Bruno venetiano di frati minori maestro in Teologia" e dedicato al conte Zoano Brandolino, condottiero veneziano. Di questo Gabriele Bruno, alla fine del libro, riporto un sonetto nel quale fa riferimento a "Messer Jordano Cavaliere" ed al suo libro di mascalcia. Tale sonetto appartiene e conclude l'edizione veneziana del 1554 stampata per gli eredi di Gioanne Padoano.

Le altre due edizioni (Venezia e Bologna 1561) fanno riferimento ad un codice posseduto a quei tempi da Messer Bartholomeo Canobio. Di questo codice in lingua volgare Giovanni De Rossi scrive testualmente: "ho voluto stamparlo nella lingua istessa che l'Autore l'ha scritto". Neanche questa versione del libro di Messer Jordano di Calabria a me sembra estratta da quella originale, che sono propenso a credere sia stata scritta dall'autore in latino (lingua in cui fu scritto il coevo trattato di falconeria dell'Imperatore) e subito tradotta da altri in volgare, per permetterne la divulgazione in ambienti meno eruditi, come erano quelli delle stalle. Nelle varie edizioni, inoltre, sono chiare ed evidenti manomissioni del testo originale, con aggiunte spesso di scarso o nessun contenuto scientifico, quando, 'addirittura, non ci sono omissioni d'interi capitoli. Per molti secoli il trattato di Giordano fu il solo riferimento per chiunque abbia scritto sull'argomento e si può affermare che non ci fu autore od editore - e furono numerosissimi in Italia ed all'estero - che non abbiano apportato aggiunte o operato mutilazioni al testo originale, quando addirittura non lo pubblicarono con il proprio nome o ne riprodussero gran parte senza citare la fonte.

Del tutto recentemente - in occasione di un mio soggiorno a Villa Cicero, residenza di D. Lucilla Ruffo della Floresta -

ho potuto prendere visione di un antico trattato di mascalcia formato da tre opere: la prima del napoletano Federico Grisone edita nel 1561, la seconda di autori diversi edita nel 1559, la terza di Giordano Ruffo, che è l'edizione che mi appresto a riprodurre.

L'esistenza di questo libro non mi era nota, ma non fu per me una sorpresa trovarlo nella biblioteca di diretti discendenti di quel duca Vincenzo Ruffo della Floresta, che fu e rimane il più serio e documentato studioso della storia e della genealogia della sua stirpe.

L'edizione veneziana del 1561, seppur manomessa ed incompleta, a me sembra la più adatta ad essere proposta ai Ruffo viventi in questa fine di millennio, all'inizio del quale Giordano ed altri del suo casato, ricalcando le orme impresse nella storia da altri Ruffo, vecchie di tre mila anni (haec familia quinquaginta principes habuit et cum eis magnum multitudinem discendentium ad numerum termilium, Ritonio secolo 15°), mantennero illustre il nome della "gens Rufa" il cui Casato, detto Magna Domus dai contemporanei, grande parte ebbe nella storia di Calabria e Sicilia.